INNO FRATELLI D'ITALIA (1847)
di Goffredo Mameli
musica di Michele Novaro
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Goffredo Mameli
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Il canto degli italiani, meglio conosciuto come inno
di Mameli,
fu scritto nell'autunno del 1847.
Il 12 ottobre 1946 l'inno di Mameli
divenne
l'inno nazionale della Repubblica Italiana.
Inno nazionale della Repubblica italiana dal 1947
Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria ?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano ,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò
Cari terroni
di Lino Patruno
Istruzioni per l’uso ai colleghi terroni. Cari terroni, visto che in questi
ultimi tempi si è ripreso a parlare di Sud, ne sentiremo di tutte, e ovviamente
quasi tutte negative per noi. Dobbiamo avere sempre una risposta. Ricordando un
punto di partenza, l’Unità d’Italia del 1861, della quale l’anno prossimo
saranno i 150 anni. Andava fatta per non restare la serie B del mondo, e il Sud
doveva esserci. È stato il nostro più grande successo negli ultimi 500 anni. Ma
al Sud c’era, piacesse o no, un altro Stato, col quale normalmente si fanno
discorsi del genere: troviamo un accordo, stipuliamo un trattato di adesione,
creiamo una confederazione, se arriviamo a una fusione brindiamo alla grande.
Invece il Sud fu conquistato con una guerra. E dopo trattato a ferro e fuoco con
la scusa dei briganti. Ci spezzarono le reni, ci rapinarono di tutto a
cominciare dai nostri risparmi al Banco di Napoli. Ci bloccarono la nascente
industria per far sviluppare la loro, si comprarono i proprietari terrieri
parassiti tradendo la promessa delle terre ai contadini, ci dettero in
Parlamento una rappresentanza ridicola tanto per salvare la faccia, ci
descrissero come selvaggi da piegare con la punta delle baionette. È vero che
salendo dalla Sicilia verso Napoli i Mille di Garibaldi diventarono centomila.
Ed è vero che, al plebiscito, il «sì» al Nuovo Stato fu quasi unanime. Ma a
Unità conseguita tradirono tutto. Il Sud, cari terroni, dal 1861 invece di stare
meglio è stato molto peggio. E da allora ha cominciato a crescere quel divario
col Nord che ora ci rinfacciano dimenticando la storia. Perché, ricordiamolo
sempre, la storia vera non la vuole raccontare nessuno: può sembrare reazionario
e magari di destra, da nostalgici e borbonici, per carità. E la congiura del
silenzio non fa aprire neanche gli archivi, meno che mai quelli militari, si
dovesse scoprire che al Sud ci fu un mezzo genocidio. Soprattutto da allora non
c’è stata decisione economica che non servisse gli interessi del Nord a danno al
Sud, come si fa con i colonizzati. Finché, quando a cavallo del 1880 il ritorno
al protezionismo e la rottura commerciale con la Francia seminò la miseria
nell’agricoltura meridionale, cominciò quella Grande Emigrazione per le Americhe
che lasciò al Sud solo vecchi e vedove. Vi dicono anche e vi diranno, cari
terroni, che nonostante tutti i soldi che ci hanno dato, non abbiamo fatto un
passo in avanti. Rispondiamogli che è stata una pentola bucata: ci versavano
acqua per noi che però si perdeva perché si continuava a fare tutto il resto a
favore del Nord. Ci davano una lira, ce ne toglievano tre. Ci dicono e ci
diranno che li abbiamo utilizzati male, e in parte è vero: ma come utilizzarli è
sempre stato deciso d’accordo coi governi. E in ogni caso gran parte dei soldi
al Sud sono tornati al Nord: con l’acquisto dei suoi prodotti, con i lavori che
veniva a fare al Sud, con i sussidi alle sue fabbriche che scendevano. Perciò,
quando oggi ci rimproverano di vivere alle loro spalle, replichiamo che da 150
anni avviene il contrario. E che se non siamo ancora sviluppati come atteso,
sono loro a doversi giustificare, non noi. Certo, noi abbiamo i nostri difetti:
il vizio dell’assistenza, l’incapacità di unirci, lo scarso rispetto delle
regole, la rassegnazione del «Franza o Spagna purché se magna», la mancanza di
dirigenti all’altezza. Ma non è possibile che nel resto d’Italia non si mettano
neanche le dita nel naso. Soprattutto noi non ci rendiamo conto che non c’è
elezione nazionale che non si vinca al Sud. E non lo facciamo pesare per
arrivare a una svolta. Ora, compaesani terroni, ci diranno che è il solito
vittimismo piagnone. Siamo anzitutto vittime della nostra incapacità di farci
valere. Siccome però lunedì sapremo chi governerà la Puglia, affidiamo al
futuro governatore poche e sentite raccomandazioni. Pretendiamo che si facciano
quelle opere che rendano conveniente investire al Sud: un’incompiuta di 150
anni. Ma visto che gli incentivi alle imprese non hanno funzionato perché non
serve dare un po’ a tutti, pretendiamo che tutto il Sud diventi un’area senza
tasse per i profitti delle aziende, come concesso all’Irlanda e ad altri in
Europa. E il governo vada a chiederlo una volta per tutte a Bruxelles non con la
consueta aria da gita aziendale, se davvero ha a cuore il Sud, l’unico che può
far crescere il resto del Paese. Anzi armiamoci e andiamoci pure noi. Anche se
il Nord può vedersi sfuggire qualche investimento. E qualcuno, partendo magari
proprio dalla Puglia, si preoccupi di mettere insieme questo Sud perché solo
così, come Bossi insegna, non ci si fa ridere in faccia.
Insomma, di sicuro qualche disturbo infantile deve avere quel sociologo inglese
secondo il quale noi terroni siamo minorati mentali perché più vicini
all’Africa. Ma se non i minorati, non è bello neanche fare sempre i fessi.
Fonte:Gazzetta del Mezzogiorno del 27/03/2010
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